L'ensemble dalla fama ineguagliata si esibisce in due diverse concezioni del genere cameristico, entrambe con risultati fuori dal comune.
Nove Grammy Awards, fra i quali ne spiccano ben due come “migliore Album Classico” (rarità assoluta per la musica da camera), tre Gramophone Awards e l’Avery Fisher Prize, per citare i principali riconoscimenti internazionali: la fama del Quartetto Emerson è ineguagliata, nel suo genere, e l’aspettativa che si crea ai loro concerti non viene mai delusa. Grazie all’Associazione Alessandro Scarlatti, i quattro hanno calcato la scena napoletana già più volte, e quest’anno sono ritornati, lo scorso 24 novembre, con un programma a sua volta più che illustre, come il Quartetto op. 51 n. 2 di Brahms e l’ultima composizione di genere di Franz Schubert, il Quartetto in Sol maggiore opera postuma 161 D887: entrambi riconosciuti come summa delle rispettive concezioni musicali. Ed è stata, questa, anche la prima occasione per ascoltare l’ensemble (che dal 1976 prende il nome del poeta e filosofo americano Ralph Waldo Emerson) nella nuova composizione, dopo che nel 2013 il violoncellista Paul Watkins, già grande solista e direttore d’orchestra, si è unito al gruppo.
Ascoltare gli Emerson che si uniscono letteralmente con Brahms, è come sedersi in poltrona ed ascoltare la loro migliore versione registrata che conosciamo: se già in sé l’opera contiene i segni di una equilibrio stilistico e di significati davvero raro, l’esecuzione offerta rispecchia la densità ed il forte accento sugli spostamenti degli stati d'animo, sin dall’apertura piuttosto tecnica dell’Allegro ma non troppo, nel quale emerge una sapiente qualità dolce-amara, al controllo di altissima qualità del dolore di fondo e dell'angoscia dell’Andante moderato, passando per contrasto ad un Quasi menuetto, moderato che alterna lirismo a passaggi di impressionante vigore, per arrivare a un Finale. Allegro non assai che sembra unire due temi contrastanti simili ad uno Stomp ungherese e ad un leggero e dolce valzer.
Dopo la pausa, il cambio del primo violino: gli Emerson sono infatti uno dei pochi assieme in cui vi è l’abitudine ad alternarsi in questa parte, e così Eugene Drucker (dopo Philip Setzer con Brahms) prende il comando del gioco degli scambi delle atmosfere del Quartetto in Sol maggiore opera postuma 161 D887 di Franz Schubert. Composto incredibilmente in soli 10 giorni (dal 20 al 30 giugno 1826), si tratta anche del più lungo dei suoi quartetti (con 1577 battute) ed anche di quello che viene considerato degno del monumento-Beethoven, che l’autore stesso considerava riferimento massimo nel suo tempo. Dobbiamo dire che in questa seconda parte si apprezza qualcosa in più, rispetto alla tecnica della prima, poiché con questo Schubert i quattro hanno la possibilità di tuffarsi in un’interpretazione che li impegna al meglio con i suoi giochi d'eco, con il propagarsi dei temi da uno strumento all'altro, e con l’alternarsi delle sezioni in maniera quasi “orchestrale”, grazie ad una scrittura complessa ed all’utilizzo di passaggi che contemplano l'unisono, elementi come il tremolo, e un susseguirsi come di domande e risposte fra blocchi sonori. Con una parte speciale riservata, quasi sempre, alla guida di un violoncello predominante. E fra spinte ritmiche, strappi, ribattute e melodici arpeggi, via via gli Emerson hanno trasformato la serata in un tourbillon da cui era impossibile sfuggire, e che ha imbrigliato l’ascolto con redini sicure; una struttura il cui colore è sembrato davvero esaltare anzitutto l’ensemble, e poi il pubblico.
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